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Caccia ai Flintstones al Bivacco Borroz. |
Data di pubblicazione: 17 novembre 2014 |
Scritto da: Luca Bausone |
(I FEROCI TAFANI DEL LAVODILEC E GLI INESORABILI TEMPORALI DELLA CLAVALITE') La Clavalitè è una bellissima valle ai più sconosciuta. Sale da Fenis per arrivare fino all'omonimo colle sulla vallata di Champorcher passando per un pianoro verdeggiante e costellato di stupende baite e costeggiando sul lato nord-est l'imponente Tersiva. Più meno a metà tra pianoro e il colle si trova senza dubbio il bivacco incustodito più lussuoso di tutta la Vallée (e forse non solo), il Bivacco Borroz. Il nome bivacco in questo caso è quasi offensivo; trattasi di una elegante baita in pietra e legno dotata di stufa a legno, fornelli, pentolame di ogni tipo, acqua corrente, bagno interno, due stanzoni con altrettanti tavoloni e sedie a volontà, dormitorio per 20 persone con enorme vetrata. Quando entri per la prima volta ti aspetti di trovarci anche un cuoco e un maggiordomo a disposizione tant'è bello e, visto che è stato costruito con le sovvenzioni del Rotary di Aosta, non è escluso che a breve entrambi rientrino nella dotazione del bivacco. In questo posto favoloso e in un contesto alpino mozzafiato si nasconde un'insidia letale; questa è la cronaca dei drammatici eventi che ci hanno quasi condotti ad un passo da una fine orribile nell'estate del 2013. SABATO 27 LUGLIO 2013 È il momento di una sessione fotografica notturna, il weekend si prospetta ideale per cui dobbiamo decidere una valida destinazione. "Special guest" della bivaccata il grande Vito, collega di lavoro del Koala (che, non ci stancheremo mai di dire, è detto anche "Federico", o forse anche il contrario), ora "flintstoniano" in pianta stabile, poeta e geniale fotografo a innamorato della montagna e della natura in generale. E quale può essere la destinazione se non il Borroz? Bivacco baita strepitoso in valle selvaggia e solitaria, a fianco di quel piramidone della Tersiva, la cui silouhette è uno sfondo fotografico ideale: affare fatto. Ci troviamo al solito mega supermercato Gros Cidac di Aosta dove, come già detto in gite precedenti, tendiamo ad acquistare alimenti che garantirebbero la nostra sopravvivenza al bivacco per più di un mese, e via, verso Fenis e verso la Clavalitè. Dopo aver lasciato la macchina nel parcheggio ci dirigiamo allegramente verso il pianoro abitato. Nonostante il Koala non sia sprovveduto in quanto a materiale ed esperienza fotografica, il Vito sconfina nel professionismo con un'attrezzatura impressionante. Tra i vari attrezzi del mestiere si trascina dietro un obiettivo dalle dimensioni di un obice che andrebbe denunciato come trasporto eccezionale con relativa scorta. Per fortuna non incontriamo pattuglie per cui risaliamo fino al pianoro con tranquillità anche se fa caldo e l'obice pesa nello zaino di Vito, che peraltro esibisce una sudorazione alluvionale ma anche una resistenza "professionale" encomiabile. Raggiungiamo, attraverso un sentiero che costeggia il torrente che denomina la valle e che ci permette di tagliare i tornanti della strada asfaltata, la Piana della Clavalitè; è veramente ampia e bella, costellata di baite e antichi abitati, posto ideale per sgranocchiare qualcosa e dissetarci. Inizia a scorgersi la punta della Tersiva, bellissima e imponente montagna, scattiamo qualche foto giusto per scaldarci e proseguiamo per sentiero boschivo per fortuna ombreggiato che risale fino a incrociare la poderale che risale fino agli alpeggi circostanti la nostra destinazione. La giornata è bella anche se fa un caldo piuttosto umido, d'altronde non siamo molto alti per cui ci sta. Scorgiamo in lontananza alpeggio e alla sua sinistra il bivacco, è dritto davanti a noi e la poderale prosegue quasi in piano per cui i nostri zaini da cui spuntano salumi e obiettivi in quantità, sono ancora umanamente sostenibili. Si nota il passaggio delle sane vacche dell’alpeggio, hanno rilasciato parecchio materiale sulla poderale che noi abilmente scansiamo nonostante le ben note credenze sulla sua qualità di portafortuna: qui, con una camminata distratta, avremmo la sorte dalla nostra per un millennio abbondante. Mentre sono intento in questa delicata operazione sento un acuto "ahia!" dietro di me; è Vito, vedo che si tocca la spalla, "si è sicuramente slogato una spalla, lo zaino è troppo pesante", penso. Sbagliato. Passa una manciata di secondi e vedo Federico che si schiaffeggia sulla testa imitando perfettamente lo strillo del collega. Li guardo stupito, non capisco, gli "ahia" si susseguono, si girano su sé stessi schiaffeggiando l'aria come ammattiti, cerco il cellulare per chiamare la neuro quando capisco. Sento una dolorosa puntura sul collo e d'istinto mi schiaffeggio, si libra in volo un orrido tafano che però non si allontana; i miei compagni, nel frattempo, mi hanno superato correndo; il tafano che la natura mi ha simpaticamente dato in dotazione non si allontana e ci riprova varie volte, corro anch'io e per un po' non demorde. Raggiungo i compagni e siamo in salvo per il momento: i tafanacci, allegri compari delle vacche alpeggianti, son rimasti in zona e ci hanno scambiato per ruminanti. Non nutrendoci di erba la cosa ci è piaciuta poco (ma penso che anche le vacche non gradiscano) ma oramai siamo all'alpeggio per cui proseguiamo più tranquilli verso il Borroz. Quando arriviamo la sorpresa è grande: è anche più bello di quello che pensavamo: c'è tutto, una bella stufa con grande scorta di legna, una vera cucina con fornelli e bombole, pentolame e posateria di ogni tipo, lavandino con acqua corrente, un bel tavolone in legno per la cena e un dormitorio per 20 persone attrezzato con una vetratona centrale spettacolare. E' un posto da re, con un paio di cubiste sarebbe il top ma ci accontentiamo per cui iniziamo ad alleggerire gli zaini e a mangiare saporitamente: i ripetuti scatti per sfuggire alla vile tafaneria ci hanno messo parecchio appetito. Il programma del pomeriggio è la breve salita al lago soprastante, il Lavodilec, alle pendici della Tersiva e sotto l'omonimo colle. Saliamo per una breve escursione "digestiva"; attraversiamo l'alpeggio ma, come nella perfetta tradizione delle gite precedenti, il cane dell'alpeggio ci prende in antipatia per cui giriamo al largo sotto lo sguardo collerico del solito "cerbero". Il sentiero prosegue a mezzacosta per poi irripidirsi per un breve tratto, arriviamo al lago,un posto splendido. La Tersiva è davanti a noi, i colori del lago sono incredibili, Federico e Vito sbavano, tirano fuori le armi, piazzano i loro cavalletti e scattano foto che il National Geographic etichetterà onestamente come "epiche". Federico ripone il materiale nello zaino e si dirige con il sottoscritto verso il fondo del lago. E' questione di un attimo, sentiamo una mitragliata di "ahia" condita da sane bestemmie, ci giriamo e lo spettacolo è inquietante: Vito sta cercando di riporre velocemente cavalletto e materiale nello zaino, è nel mezzo di una fitta nube di tafani. Passano secondi interminabili, riesce a stipare il tutto ma non riesce a sistemarsi lo zaino, lo tiene in una mano e corre disperato verso di noi sempre nel bel mezzo della nube. È a pochi metri, nel frattempo sento un paio di punture su pelata e schiena, anche il Koala viene aggredito e urla: scattiamo. Con la coda dell'occhio vediamo il povero Vito inciampare, la nube si getta repentinamente su di lui con ferocia inaudita, allunga un braccio verso di noi gridando disperatamente aiuto ma non possiamo far nulla, dobbiamo salvare la nostra pelle (nel vero senso della parola). Federico si ferma esitante, lo prendo per un braccio invitandolo a proseguire; "corri, per Vito non c'è più nulla da fare". Con un allungo da centometristi ci mettiamo in salvo in una zona poco distante dal fatidico Lavodilec. Io e Federico ci guardiamo con sconcerto; ci sentiamo in colpa per non aver soccorso il nostro sfortunato amico, "Non c'era niente da fare purtroppo" dico per confortare l’amico; “andremo dopo con cautela a raccogliere i miseri resti” aggiunge il Koala che vuole dare una degna sepoltura allo sfortunato collega che però si dimostra molto più coriaceo di quello che pensiamo. Dal lago soprastante sentiamo un rantolo poi un rumore di passi e poi finalmente spunta Vito barcollante, ancora circondato da qualche sporadico e avido tafano che vuol terminare la minuziosa opera di distruzione. Ha il volto punzecchiato, sembra un fresco reduce da una brutta varicella, ci raggiunge a stento, lo abbracciamo e ci complimentiamo con lui per il coraggio e la resistenza esibita; ci guarda severamente “mi avete abbandonato…” biascica a stento. Lo convinciamo che anche volendo non avremmo potuto far nulla, che i tafani del lavodilec sono temuti in tutto il mondo, gli racconto la triste storia di un gruppo di sedici escursionisti danesi spariti nei pressi del lago nel 2011 e i cui scheletri spolpati sono stati in parte trovati nelle zone circostanti solo l’anno dopo. Alla fine, Vito perdona il nostro atto di indicibile viltà, si inorgoglisce per la prova di forza indubbiamente offerta e ci dirigiamo allegramente verso il Borroz. Ogni tanto Vito si lamenta per le punzecchiature ma il morale è alto; ovviamente il cane dell’alpeggio, pur vedendoci malconci, non fa sconti. Avanzo per primo sul sentiero fischiettando ma non la beve, ringhia, proseguo, scatta e ringhia rabbiosamente, dev’essere il pronipote di Kurz il mitico cane di Goebbels, ministro della propaganda nazista. Indietreggio e, seguito dai compari, decidiamo di scendere sulla poderale per poi risalire al bivacco con più serenità. La serata è ottima, il Koala prepara gli stuzzichini con la solita maestria (il suo appartamento a Morgex ha recentemente guadagnato la stella Michelin), parte la usuale polentata, abbondantemente sufficiente per saziare una squadra di rugby al terzo tempo. Scatta la sessione fotografica, il Vito per cercare la posizione ideale finisce nella bella vasca in “boiserie” della fontana antistante il bivacco; l’acqua è gelida ma resiste stoicamente nonostante un insidioso principio di ipotermia. Il Koala, pure lui in trance fotografica, piazza una terrificante craniata contro una solida trave di sostegno del bivacco, è di legno pregiato per cui anche il suo bernoccolo risulta di qualità. Io cammino sui prati circostanti il Borroz quando il piede affonda tanto dolcemente quanto abbondantemente in una sostanza che non è terra, lo si capisce dall’aroma emanato; purtroppo continuo a non credere nelle proprietà beneauguranti dell’evento per cui bestemmio con particolare accanimento mentre cerco disperatamente di sfregare lo scarpone nell’umida erba. Nonostante questi contrattempi le foto sono veramente belle; effettivamente Vito, nonostante la terribile aggressione patita e il principio di congelamento sfoggia una rara dimestichezza con l’arte fotografica per cui sforna autentici capolavori. Alla fine, rientriamo all’ovile, il bivacco è confortevole a dir poco, carichiamo la stufa a legna e collassiamo indegnamente nel dormitorio, la giornata è stata impegnativa. DOMENICA 28 LUGLIO 2013 Il risveglio è dolce ma il tempo è così così, nubi minacciose si accumulano al col Fenis; il programma della domenica è risalire verso il Col Fenis per ritornare dal sentiero di salita. Volgiamo i nostri sguardi amichevoli verso il colle e notiamo con dispiacere che il colle molto amichevole non è: nubi minacciose sono già presenti in loco, o si torna dalla poderale o si sceglie un sentiero alternativo. Guardiamo la piantina, noto che c’è la possibilità di salire fino al Col Fussy ( a fianco al Mont Glacier dove si scollina verso Champorcher) , poi traversare verso il Col de l'Etzely, a fianco al Mont Raffray, scendere al lago Mezove per poi percorrere il vallone del Savonney, quasi parallelo a quello della Clavalitè e che permette di ritornare alla piana con uno spettacolare percorso ad anello; io dopo il pestaggio di escrementi della sera precedente mi sento fortunato per cui decidiamo per il bel giro ad anello e iniziamo a salire; “e poi” – aggiungo agli entusiasti compagni – “il temporale è confinato al Vallone di Champorcher e resterà sicuramente dall’altra parte”. In tutta risposta alla mia provocazione una tuonata più forte scuote le nostre sicurezze; è la risposta del temporale che tradotta (in temporalese-valligiano) sarebbe più o meno “una beata fava!” Partiamo comunque un po’ scossi ma fiduciosi, il sentiero sale ripidamente, costeggiamo un altro alpeggio e raggiungiamo un pianoro superiore, la giornata è ancora bella ma nel frattempo i tuoni si avvicinano e le nubi minacciose hanno già raggiunto il bivacco per cui al motto di “passo lungo e ben disteso” voliamo la spianata per risalire una erta rocciaia verso il passo, che dà accesso alla vallata di Champorcher , giusto a fianco del Mont Glacier. Negli ultimi 200 metri compare un lungo nevaio che facilita la nostra ascesa, non sembra profondo ed è percorribile senza ramponi per cui lo affronto con serenità e urlo “tranquilli, si va be…”; “be” non è una abbreviazione bonaria della parola “bene” ma è la prematura conclusione della frase prima di sprofondare fino oltre la cintola nei classici buchi che si producono nei nevai a fianco alle rocce. Per fortuna sono fermo per cui più che sprofondato sono stato risucchiato dalle misteriose forze della natura, esco a stento sotto lo sguardo divertito di quei simpatici bastardi dei compari, pronuncio il “ne” finale giusto per correttezza ortografica e ci dirigiamo con più cautela verso il colle. In realtà poco prima del colle deviamo a sinistra e con un lungo traverso raggiungiamo il Col de l'Etzely piccola sosta ristoratrice con una simpatica comitiva di francesi, scambio di battute cordiale che degenera nella classica provocazione calcistica rievocatrice delle due finali calcistiche del 2000 e del 2006 (vedo Federico fare il tradizionale e italico gesto ad ombrello, un brutto episodio di intolleranza montano-calcistica che non mancherò di segnalare all’ UEFA), è giù verso il bel lago Mezove. Nel frattempo il temporale, forse per colpa della mia provocazione mattutina, si rompe i coglioni e scollina da Champorcher e dall’Avic; ora è nero come la pece, si sentono le prime gocce. Vito e Federico, ricordandosi della mia profezia, mi guardano severi. “E’ un temporale atipico…” cerco di giustificarmi. Un’ altro fragoroso tuono irrompe, sempre in temporalese, lingua che ormai conosciamo, è la risposta che significa “…e ora vi faccio un c…così, tre bei minchioni.” Inizia a piovere, scendiamo veloci, inizialmente anche il temporale si ferma al lago per una breve sosta, per qualche minuto quasi smette poi la sosta finisce e il fetente ci raggiunge in men che non si dica. Nonostante un lungo percorso nel bosco, veniamo sverniciati d’acqua, arranchiamo sul sentiero fangoso, passiamo un’oretta bella tosta, inzuppati come ciambelle a colazione; Vito, massacrato dal trasporto della pesante attrezzatura, scivola e si spalma drammaticamente sul terreno fangoso che a sua volta , per pura solidarietà , si spalma copiosamente su di lui. Ora sembra un vietcong in azione nell’infernale foresta vietnamita, la spalla gli duole ma per fortuna si tratta di un leggero infortunio (gli verrà amputato l’arto con una brillante operazione un paio di giorni dopo) e, con stoicismo, riprende il suo passo barcollante. Per fortuna, in pieno dramma, verso la fine del vallone, la tempesta si placa e improvvisamente viene fuori un sole feroce. All’inizio fa piacere poi iniziamo a collassare dal caldo, è la tortura del caldo e del freddo, Vito inizia a imprecare contro il suo pesante obiettivo obice, ora è meno professionale del giorno precedente, sento Federico borbottare a bassa voce “temporale atipico……ma va…” (ce l’avrà mica con me?) e in condizioni miserrime raggiungiamo la bella Piana da cui tutto partì. Ci rilassiamo, il tempo ora è splendido (maledizione!) facciamo una lunga sosta e poi giù verso la macchina, una bella avventura è appena terminata, tempo di progettarne altre… La relazione di queste gite: Bivacco Borroz - Lago Lavodilec. Pensieri in libertà (Di Vito G.) Il filamento della mia lampadina (imparare a conoscere se stessi) |