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Un bel Rutor... e la digestione è completa! |
Data di pubblicazione: 2 gennaio 2016 |
Scritto da: Luca Bausone |
Agosto 2008, ci trasciniamo stancamente tra bar, caffetterie, gelaterie e grigliate, il peso forma è già tragicamente superato ed è giunto il momento di una bella gita “dimagrante”. Alla gelateria di Morgex, tra un taglio al caffè e una coppa fantasia, il solito condottiero Massi (detto anche “Capitan Crash”) dopo un inquietante silenzio solitamente foriero di nuove drammatiche iniziative sbotta improvvisamente in un “Testa del Rutor!”. Sembra colto da un’improvvisa illuminazione, ognuno di noi fraintende e pensa che sia un epiteto a lui rivolto; pure io penso che nessuno mi abbia mai detto “Testa del Rutor”, stiamo per aggredirlo a parole e a mani quando realizziamo che in realtà la “Testa del Rutor” è una cima proprio sul punto più alto dell’immenso ghiacciaio del Rutor e che il capitano ha solo voluto proporre una destinazione per la prossima escursione. Ne parliamo, il progetto più che dimagrante è sadomasochistico come nelle migliori tradizioni di Capitan Crash; è una terrificante traversata dal Rifugio degli Angeli in Valgrisanche al Rifugio Deffeyes. Ci guardiamo, in effetti siamo tutti sovrappeso ed è ora di dimagrire, la proposta è approvata e l’indomani si parte per la Valgrisa. Le truppe d’assalto ai comandi di Capitan Massi sono composte da: Il Presidente “Koala” Federico Stefano detto “Airboarder” “Macchia Nera” Luca (colui che racconta) È un gruppo scelto e motivato per cui la Testa del Rutor deve iniziare a preoccuparsi seriamente. Parcheggiata l’auto a Bonne saliamo per il comodo sentiero verso il rifugio e più o meno a metà strada, a fianco ad una catasta di legna, troviamo un curioso cartello che ci sprona a caricarci almeno di un ceppo e di trasportarlo al rifugio. In effetti il Rifugio degli Angeli è un rifugio in via di ricostruzione ad opera dei volontari del movimento “Operazione Mato Grosso” con materiale che viene trasportato manualmente per evitare i pesanti costi dell’elicottero; iniziativa lodevole per cui raccogliamo con entusiasmo alcuni ceppi e affrontiamo con baldanza l’ultima parte di salita. Purtroppo, la grande generosità nel voler contribuire all’opera e anche alcuni clamorosi casi di sopravalutazione fisica mista a una cronica megalomania, fa sì che ci carichiamo di ceppi come muli e arriviamo al rifugio in condizioni precarie. Dopo aver lasciato i ceppi agli entusiasti gestori, crolliamo nelle brande prima di una cena rigeneratrice; alla sera la valle sottostante è ricoperta da un fitto strato di nubi mentre alla nostra quota il cielo è terso per cui ci godiamo un tramonto indimenticabile che immortaliamo prontamente con le nostre digitali. Ci dirigiamo alle brande stanchi ma felici quando sentiamo una strana inquietante vibrazione provenire dal dormitorio; man mano che ci avviciniamo la vibrazione diventa un sonoro grugnito che conferma le più cupe previsioni: un grande russatore è tra noi! In effetti il padre di una simpatica famiglia scandinava deve avere le narici irrimediabilmente incrostate e una motosega per sequoie in gola. I vetri vibrano sonoramente e, per quanto avvezzi a russate di medio-alta intensità in rifugi e bivacchi, non siamo assolutamente preparati a un fuoriclasse di tale portata. Il suo è un misto di grugnito e rantolo che dà un triste senso di “putrefatto” al malcapitato ascoltatore e che non dà la minima tregua. Ci rigiriamo disperatamente nei letti, Massi tenta di asportarsi definitivamente i timpani con una forchetta ma non riesce a centrare il canale auditivo perché anche la forchetta vibra troppo; io mi rifugio in corridoio ma è tutto inutile, anche la struttura del rifugio vibra all’unisono con il russatore. Fa anche un caldo porco, il Koala ingaggia una dura lotta con uno dei figli del russatore: si alza, apre una delle finestre della camerata e dopo cinque minuti il perfido vichingo junior si alza e la richiude, il tutto dura più o meno tutta la notte. Per fortuna la sveglia prevista per le quattro del mattino pone fine alla drammatica notte anche se in sala pranzo per la colazione si presentano quattro “zombies” male in arnese che sorseggiano i loro caffè con delle occhiaie da oscar e un sonno arretrato immenso. Poco male, il morale è alto e siamo pronti alla partenza per la conquista del Rutor con il prode Massi in testa al gruppo, un visionario Don Chisciotte seguito stavolta da ben tre “Sancho Pancha”. La prima parte di salita è su tracce di sentiero su roccia e sfasciume ma dopo poco si giunge a quello che resta di un derelitto ghiacciaio che va attraversato prima di raggiungere un tratto di morena che ci condurrà al col del Rutor. Niente di complicato anche se il tratto è piuttosto ghiacciato, iniziamo la progressione quando il silenzio dell’alba in alta quota viene interrotto dalle imprecazioni del “Koala” Federico. E’ nel dramma, l’incauto marsupiale non ha preventivamente controllato l’efficienza dei suoi ramponi, male in arnese come il proprietario, in particolare uno di essi è particolarmente malandato e si allenta e si slaccia dopo pochi metri. Inizia per lui un breve ma significativo calvario condito da bestemmie, pianti e preghiere, proviamo varie volte a sistemare gli odiosi trabiccoli ormai anteguerra ma è una lotta terribile: appena il Koala li fissa e riprende la marcia, dopo solo pochi passi si staccano inevitabilmente aderendo come cozze al ghiaccio sottostante. E’ un tiramolla che dura il tempo di raggiungere la parte rocciosa, tiriamo un sospiro di sollievo e il Koala, ormai sfinito già ad inizio gita, li ripone nello zaino e prosegue verso il colle. Giungiamo al colle e il panorama che si apre su entrambe le valli è sontuoso, in particolare sul vastissimo ghiacciaio del Rutor che dovremo poi percorrere in discesa; pensiamo ai ramponi del Koala e progettiamo di gettare sia loro che il proprietario in un profondo crepaccio in caso di un loro prolungato malfunzionamento. Iniziamo a salire per la facile cresta e, dopo poco, giungiamo alla Madonnina sulla Testa del Rutor; tutto sommato non siamo stanchi ma il pensiero dell’interminabile ghiacciaio e del lungo rientro a Le Joux ci stanca mentalmente ancor prima di iniziare ad esserlo fisicamente. Ad ogni modo ci godiamo il momento, Capitan Massi festeggia con una gragnuola di peti, probabilmente ha mangiato pesante, non crediamo sia il suo modo abituale di festeggiare l’arrivo in vetta, io in preda a confusione da quota indico una quindicina di vette circostanti senza azzeccarne una che sia una. Una volta effettuato il tradizionale reportage fotografico di vetta con la Madonnina come superstar ci accingiamo a scendere sul ghiacciaio sottostante per il lungo ritorno. I primi passi sull’enorme distesa bianca sono vissuti con terrore autentico al Koala che teme un interminabile lotta con i suoi ramponi difettosi, anche il resto del gruppo teme un calvario che sarebbe terribile per l’amico marsupiale che, vi ricordiamo, è animale protetto dal WWF. Dopo un breve consulto confermiamo quindi (come già pianificato al colle), in caso di ramponi non funzionanti, il proposito criminale di tumularlo gentilmente in un profondo crepaccio insieme ai ramponi; potrebbe sembrare un atto di mera crudeltà ma invece è una decisione volta ad abbreviare la sua sofferenza e forse anche un po’ la nostra. Ma i ramponi e il Koala, sicuramente un po’ intimoriti dal progetto omicida, resistono e iniziamo la discesa superando una bella serie di crepacci e giungendo infine alla parte “secca” della discesa su sfasciume e sentiero in parte attrezzato su catene. L’ultima lingua di ghiacciaio che conduce alla traccia di sentiero ha prodotto un canalino con un breve salto tra ghiaccio e roccia un po’ ostico, sembriamo quattro gattini miagolanti sul classico albero alla disperata ricerca di aiuto e in più siamo sullo sfinimento andante. Dopo alcuni goffi tentativi e fantasiosi e coloriti epiteti, riusciamo uno a uno a scivolare sul sentiero e da lì in poi ognuno di noi vaga come un fantasma verso il miraggio del Deffeyes , in preda a deliri e risate isteriche. Giungiamo al rifugio davanti agli sguardi attoniti di svariate decine di escursionisti che stanno consumando il loro ricco pasto, sembriamo quattro pericolosi squilibrati appena sfuggiti da un manicomio criminale; noto i loro sguardi terrorizzati appena estraggo una piccozza per depositarla sul prato. Quando comprendono la nostra scarsa pericolosità si rigettano sulle loro polente, operazione che in breve tempo faremo anche noi, ormai famelici per la lunga gita. La discesa dal Deffeyes a Le Joux è il calvario nel calvario, ormai fatichiamo ad alzare i piedi che si schiantano inesorabilmente sul ciottolato del sentiero con conseguenze disastrose per le nostre povere unghie; quando giungiamo al bar-ristoro siamo ormai quattro ologrammi proiettati da chissà dove senza alcuna consistenza. Ci aspetta un lungo ritorno in auto per una parte del gruppo fino a Morgex dove giungiamo ed è proprio lì che realizzo che la mia auto, che la lunga e faticosa giornata aveva rimosso dalla mia mente malata, è ancora a Bonne in Valgrisa. Raccatto un provvidenziale passaggio del padre del Koala e raggiungo il mezzo sotto un violento temporale; sono quasi tentato di crollare sul sedile e dormire pesantemente in loco ma dopo poco riprendo le residue forze e mi dirigo verso casa stanco ma, come sempre in questi casi, felice per la bella avventura. Per la scheda tecnica di questa gita sul sito potete cliccare QUI e invece per il video su Flintchannel potete cliccare QUI |